Le fotografie scattate a New York e in altre città americane da Thomas Sayers Ellis evidenziano nel modo di porsi colorato e fuori dagli schemi di persone o di gruppi di giovani afroamericani una volontà di esserci con la propria presenza identitaria in una società che tutt’ora non ha risolto problematiche di discriminazione. L’autore sembra voglia far emergere alla fine lo spirito puro e libero di un popolo che trova in sé quelle risorse e quell’energia che gli permette di opporsi quasi in una sorta di quotidiana ed abituale prova di resistenza. Modi di atteggiarsi, gesti, espressioni anche in una sorta di “forzatura”, per usare il termine dell’autore, voluta, a volte inscenata e un po’ teatrale, sono i segni esteriori di una “verità” che non può che emergere: l’indole di un popolo che vuole affermare origini, radici, cultura, anche se in un mondo ormai omologato, compromesso in ogni autenticità e ormai immerso in una decadenza valoriale generalizzata. L’autore ribadisce proprio nel titolo, che intreccia nei suoi neologismi lavoro fotografico e contenuti rappresentati, il senso e la sua idea di fotografia. Anche la fotografia per sua stessa struttura è strumento di quella poesia che è per lui ambito di scrittura molto frequentato in rapporto anche alla musica jazz: una poesia ricca di spunti esistenziali spesso percorsa da accenti ironici, critici e di protesta, “giambici”, come li definisce appunto lo stesso Thomas Sayers Ellis e non solo per metrica poetica e in rapporto alle improvvisazioni strumentali jazzistiche. Anche la fotografia con le sue immagini tra verità e finzione, scarto ove si formano diversi livelli di senso interpretativo, se ne fa tramite come ulteriore strumento d’arte e di “lotta”.