Studiottantuno Contemporary Art Projects ha scelto il Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova, ricco di opere pittoriche, oggetti e collezioni d’arte, come contesto idoneo per circoscrivere un ambito di ricerca per i giovani artisti Varvaro e Zimbardo ed offrire loro un’ampia possibilità di interpretazioni e nuove narrazioni. Gli artisti, usando la fotografia in modo molto libero, fuori da schemi tradizionali, hanno dato una prova significativa della possibilità di tradurre nei loro lavori fotografici un’ampia esperienza di percezioni, suggestioni, contenuti intellettuali secondo differenze operative, interessi specifici diverse poetiche.
Manfredi Zimbardo ha fondato il suo lavoro dal titolo “Buone maniere” sul concetto di “manierismo” prendendo spunto dallo stile di opere pittoriche presenti nel Museo, estendendolo poi, in fase di progetto, al concetto teorico di “manierismo sociale”, cioè di condizionamento comportamentale che fa assumere in certe situazioni esistenziali atteggiamenti affettati ed innaturali accostabili all’artificio stilistico o “maniera” nell’arte del ‘500, che rifletteva un’inclinazione mentale ed intellettuale nuova rispetto al concetto di mimesi naturalistica. Assumendo quel presupposto culturale, con alcuni riferimenti a gesti e atteggiamenti ripresi da opere pittoriche del museo nel processo creativo della sua fotografia, egli ne ha dato con rimandi e collegamenti colti una nuova e personale interpretazione, allargando il tema all’interesse socio-antropologico che caratterizza il suo lavoro fotografico. Egli si è così calato nella realtà quotidiana della città ed ha ritratto diverse persone nelle loro attività abituali in negozi e altri luoghi facendo condividere gli intenti del progetto ai suoi protagonisti. Ciò gli ha permesso una attiva relazionalità di tutta l’operazione che è diventata una sorta di verifica o meglio di esperimento, come lui stesso lo ha chiamato, “socio- artistico”. Ampliando così la prospettiva operativa si sono ampliati anche gli orizzonti di significato e i suoi ritratti possono collocarsi, fuori dal genere tradizionale del ritratto come rapporto tra due individualità, concettualmente in una zona intermedia, come “spartiacque” tra gli assunti dell’artista e la “verità” di condizioni indotte che oggi in particolare sembrano connotare la nostra stessa esistenza come forma mediata di rappresentazione-finzione. Nella stratificazione del senso ciò ha anche prodotto indirettamente una riflessione sul medium stesso, cioè la fotografia e il funzionamento del suo linguaggio. Il senso di una deprivazione identitaria propria del condizionamento comportamentale viene espressa nei ritratti dalle potenzialità espressive della fotografia con l’uso del bianco e nero e del flash che omologa le persone nell’atteggiamento e le fissa nei volti in espressioni bloccate in una dimensione quasi estraniata che ricrea una sorta di “teatrale” innaturalezza. Zimbardo mette in atto così un’ idea di fotografia come luogo performativo aperto che non documenta ma significa ad iniziare dal primario scarto tra immagine e “realtà”, proprio del linguaggio fotografico, per investirlo poi nel suo lavoro in una serie di presupposti puramente intellettuali e concettuali, dimostrandone la complessità di processo più che di risultato estetico.
Giorgio Varvaro, restando apparentemente nel suo lavoro, dal titolo “Da luce a luce”, più all’interno del processo operativo stesso, lo mette in gioco in un percorso trasformativo partendo direttamente dalle qualità pittoriche di alcune opere del Museo prese in esame in una diretta relazione tra linguaggio pittorico e linguaggio fotografico. Egli infatti interviene sul fattore del luminismo pittorico presente nei quadri collegandolo concettualmente con il tema della luce come elemento primario e sostanziale del processo fisico-chimico della fotografia. La sua esplorazione dapprima riguarda l’analisi dei percorsi di luce nella loro complessità sia simbolico-evocativa che concreta, poi agendo con la sovrapposizione di luce sulle tele, ottenuta manualmente con una torcia, ne riproduce gli effetti fotografici fino a rendere, per tappe successive, l’immagine iniziale non ravvisabile e restituendone un’altra che è la stessa ma fortemente alterata e di difficile individuazione. La mancanza di una visione percettivamente chiara coinvolge attivamente così lo spettatore, il quale non trova rispondenza nel confronto tra le descrizioni dei soggetti pittorici e la loro traduzione puramente astratta costruita di solo puro colore-luce, quasi l’artista volesse far emergere una celata o sottostante struttura della pittura secondo un’interpretazione analitica. Tuttavia l’operazione, in una sorta di “ricreazione” del quadro, tra flou, aeree evanescenze, come disgregazioni del tessuto materico, ed in aggiunta effetti creati dal supporto di stampa in plexiglas trasparente, produce nuove allusive suggestioni con la creazione di altri “spazi”, di altri “mondi” puramente immaginari che stimolano la mente ad andare oltre ogni processo razionale del pensiero, per connettere il sensibile direttamente ad una dimensione più emotiva e spirituale, interiore e non più misurabile su parametri oggettivi. Nella fotografia di Varvaro l’ assunzione della luce come elemento primario si fa così metafora che rimanda ad un altrove evocativo non più descrivibile.