Studiottantuno Contemporary Art Projects ha inaugurato giovedì 8 settembre alle ore 18,00 negli spazi di via G. Romano 81, un nuovo progetto fotografico con opere di Fabio Sandri dal titolo “Senza superficie”.
La ricerca di Fabio Sandri è una ricerca di pura sperimentalità in cui di volta in volta inventa modi e procedure come maniera alternativa e inusuale di pensare alla fotografia, costruendo filtri-oggetto come “Ingombrocavo” deposito di impronte, o proiezione dei fotogrammi da telecamera o camera fotografica montata fissa su trave in legno o alluminio, direttamente su carta sensibile, o la traccia di luce in movimento di un filmato video secondo tempi prestabiliti a fissarne le impronte.
Egli parte dagli stessi principi di fondo, quelli di una fotografia che si sottrae all’autorialità e al suo linguaggio comunemente inteso per analizzare, rivelare e materializzare le categorie fondamentali del mezzo nella sua autonomia di funzionamento.
In questo suo progetto quasi site specific Sandri trasforma con radicalità le modalità del linguaggio della fotografia attingendo ad altre forme, attraverso installazioni di corpi solidi nello spazio, cioè grandi travi con camera fotografica connessa, come metafore del corpo materiale della fotografia che trasforma lo spazio e le sue relazioni senza diventare immagine riproduttiva del reale ma facendosi altro.
E diventando altro, diventano anche luogo.
La stanza stessa fattasi fotografia nell’opera “Base”, non è null’altro che fotografia pura che rinnega mediazioni e si affida al suo farsi nell’autonomia del suo funzionamento aldilà dall’autore.
Le stanze-camera sono cinque, e in ciascuna di esse Sandri declina quasi interrogativamente attraverso specie di prove e di esercitazioni il suo credo fotografico fuori da regole di linguaggio prestabilite e imbrigliate da teorie e tradizioni storicizzate.
Un modo di pensare libero alla fotografia non come ready made delle cose del mondo ma cosa essa stessa, cosa indagata nei fondamenti della sua stessa essenza, del suo prodursi fenomenologicamente. Ciò che ne esce è riflessione filosofica, è il fotografo demiurgo che cerca di indicarci un’origine primaria, un tutto senza distinzioni, una fusione tra spazio e tempo, e l’imprendibilità della realtà dimostrata come procedura intellettuale, concreta, solida, fuori dall’effimero dell’immagine e di una presunta verità che ci gratifichi.
Non il mondo fuori da sé ma quello concretamente assorbito e riproposto sottoforma di un “inconscio tecnologico” che nel suo lavoro agisce più come sorta di intenzionalità primaria, e come quell’essere innesco di operazioni che vanno da sé, trovano una loro realtà nell’intrinsecità dell’automatismo tecnologico che si attiva con l’ausilio dell’intervento dello spettatore che può mettersi in gioco in prima persona. Questo carattere performativo di relazionalità con gli spettatori è l’altro risvolto importante dei suoi ultimi lavori.
Nel far agire lo spettatore, che dal momento che decide di mettersi in gioco deve attendere i tempi di posa necessari per la realizzazione dell’impronta sui materiali sensibili e deve prendere anche posizione nello spazio, egli si rende senziente del proprio corpo, della propria presenza, di una sua distanza e collocazione che ha risvolti in un certo senso etico-educativi, come stimolo verso la formazione di un riconoscersi e del un farsi consapevole di un proprio luogo e tempo nello spazio, come segno di un possibile percorso identificativo che si dà il tempo della riflessione.